La Valle Roveto, via degli Imperatori.
Corrado D’Antiocchia
I motivi del titolo dato al capitolo si basano sulle fonti storiche del tempo, vale a dire sulle cronache di uno storico contemporaneo ai fatti narrati: Riccardo da S. Germano, notaio anche di Montecassino. Questo storico, testimone oculare degli avvenimenti, curò due edizioni delle sue cronache. Di esse, la prima va dal 1208 al 1226 e la seconda, partendo dal 1189, giunge al 1242, otto anni prima della morte di Federico II.
Una cronaca
di Riccardo comparve durante il XVI secolo nell'Italia Sacra dell'Ughelli, e
poi tutte e due le cronache comparvero nel secolo seguente, nella raccolta del
Muratori, che va dal 500 al 1500. A principio del nostro secolo, la raccolta
del Muratori, preceduta da un ampio studio critico, fu ristampata in edizione
nazionale. E passo alla narrazione degli avvenimenti. Nel 1191, l'imperatore
Enrico VI, dopo aver dato a custodire alcuni ostaggi a Diopuldo in Roccadarce e
a Corrado di Marley in Sorella, la rocca di Sora, attraverso la terra di Pietro,
conte di Celano (per terram Petri Celani comitis), uscendo dal
Regno, tornò in Germania. Nessun dubbio che l'imperatore sia stato obbligato a
passare per Valle Roveto. Infatti, le ultime località, toccate da Enrico VI,
prima di iniziare il viaggio di ritorno, furono Roccadarce e Sora.
Ora la via più breve che da queste città portava alla Contea di Celano .. poteva essere soltanto la Valle Roveto. Nulla dei particolari sappiamo di tale passaggio, ma non è difficile immaginare quante ansie e trepidazioni destava negli animi un imperatore che aveva affidato a feudatari tedeschi o a sue persone di fiducia i governi delle regioni e delle città in Italia, avendo già lasciato il deserto dove passò come un ciclone devastatore.
Quante oppressioni in danno di tranquille popolazioni, povere ed inermi, che 'scontavano le rivalità dei potenti signori dell'epoca! Le spedizioni punitive contro questa o quella città, contro questo o quel paese, si susseguivano senza sosta e tenevano in continuazione agitati popoli pacifici, costretti ad assistere, senza potersi difendere, alle devastazioni e alle spoliazioni, fatte da bande armate di uomini senza scrupoli.
Anche Valle Roveto pagò certamente ai tempi il suo
tributo doloroso, forse maggiore di altre terre, perché divenuta
sfortunatamente, a causa della sua posizione geografica, la terra di transito
ad eserciti e sovrani in lotta fra loro. Alla precedente ragione se ne
aggiungeva una seconda: due personaggi della regione marsicana riempirono del
loro nome e delle loro imprese la storia della fine del secolo XII e di buona
parte della prima metà del secolo XIII. Furono Pietro di Celano e dopo la sua
morte (a. 1212) Tommaso, conte del Molise.
Sono molti i contrasti, molti gli
interessi da difendere, molte le ambizioni. Tra tanta confusione si
moltiplicano coloro che tentano usurpare gli altrui diritti ed allargare il
proprio dominio. Gravi senza dubbio furono i danni lasciati al passaggio per
oltre un cinquantennio di tanti eserciti nemici! Basta dire che Federico II,
forse preso dal rimorso, prima di morire, ordinò di riparare e ricostruire le
città e i paesi, distrutti e incendiati dopo lunghi assedi dall'ira e dalla
vendetta dei vincitori. Alla morte di Enrico VI (1197) e di Costanza (1198),
l'Impero era rimasto vacante. L'erede al trono imperiale e a quello di Sicilia,
Federico II, era un fanciullo di appena quattro anni.
Un grande Pontefice, Innocenzo
III, lo ebbe per volere di Costanza sotto tutela. Eppure quel fanciullo,
divenuto Federico II, lottò un giorno con Innocenzo III! In Germania due
pretendenti si combattevano acerbamente: Ottone IV di Sassonia e Filippo di
Svevia. Dopo la tragica morte di quest'ultimo, Ottone, rimasto unico padrone,
venne in Italia per essere incoronato Imperatore dal Papa. Siamo nell'anno
1209. Subito dopo la incoronazione divennero bruscamente ostili i rapporti tra
il Papa e l'Imperatore.Attorno
agli Italiani il caos.
Gli uni parteggiavano per l'Imperatore, gli altri erano fautori del Papato. Guelfi i sècondi, ghibellini i primi. Sangue fraterno fu sparso in quel secolo in Italia, divenuta campo di discordie insanabili e di atroci guerre civili. Ecco intanto uscire di minore età Federico II, ed aspro risultò il duello tra Ottone IV e gli Svevi. Pietro di Celano, conte della Marsica e potente signore in quegli anni della nostra terra, prese le parti di Ottone IV. Furono, infatti, Pietro di Celano e Diopuldo, conte di Acerra, a chiamare Ottone perché marciasse contro Federico, fornendo gli armi e soldati. È un altro imperatore, diretto nel sud, che attraversa nel 1210 la Valle Roveto.
Nel novembre di quell'anno entrò Ottone nella Marsica e aiutato dal conte di Celano, con grande esercito, per Vallem Robeti (Valle Roveto), si diresse minaccioso verso il mezzogiorno d'Italia. Qui consegnò Pietro a Ottone la città di Capua. Incontriamo per la prima volta la nuova denominazione della nostra valle. L'antico nome dei passati documenti Vallis de Urbetu, Vallis de Orbetu, Orbeto o Vallis Orbevetana si va già cambiando, per l'accennato fenomeno linguistico, assai comune, in Vallem Robeti. Il conte dei Marsi, che aiutò Ottone IV, raccolse i soldati nella sua contea e nei molti feudi di sua proprietà.
Non è da escludere che soldati di Valle Roveto
facessero parte del contingente, messo a disposizione dell'imperatore dal
conte di Celano. In quella circostanza, Sora, di cui era conte Riccardo dei
conti di Segni, fratello di Innocenzo III, avendo opposto una fiera resistenza,
fu evitata da Ottone, che si diresse per la Valle di Comino a S. Germano e a
Capua.
A questo proposito, è opportuno ricordare che anche Roccavivi, come si dirà altrove, nel 1208 era stata aggregata dal decreto di Innocenzo III alla Contea di Sora. Non ne conosciamo la ragione. È per lo meno contro la tradizione la novità: che cioè Roccavivi sia stata compresa, anche se per poco tempo, nella contea sorana. Dal Catalogo dei Baroni invece apprendiamo che Roccavivi (Rocca de Vivo) aveva fatto parte per l'innanzi della Valle Roveto e del territorio marsicano.
La stessa cosa dice il Chronicon Sublacense quando parla della chiesa di S. Paolo, oggi nel territorio di Roccavivi, ma allora compresa fra le terre di Valle Sorana (Balsorano) e del territorio marsicano. Frattanto gli avvenimenti incalzavano e la storia del secolo si faceva più drammatica, quasi identica alla lotta gigantesca tra Gregorio VII ed Enrico IV al tempo delle investiture. Stanno di fronte Innocenzo III e Federico II: è la secolare lotta tra Papato ed Impero.
La rapida corsa del mio lavoro storico mi obbliga solamente ad accennare, e nello stesso tempo le cronache locali non mi danno abbondante materiale di consultazione per offrire un quadro completo delle condizioni della nostra terra nella prima metà del secolo XIII. Una cosa è certa: Valle Roveto, chiusa fra due catene di monti" andò incontro a durissime prove.
Nel 1221
tutta la Marsica fu percorsa da fremiti di guerra. Se Celano diverrà bersaglio
dell'ira di Federico II, anche la contea celanese risentirà gli effetti
disastrosi di una lunga guerra e di una situazione precaria ed incerta: Valle
Roveto senza dubbio sopportò saccheggi e devastazioni, come il territorio più
esposto, per il quale passavano truppe e rifornimenti diretti ad alimentare la
guerriglia e la lotta.
Tommaso da Celano dal 1221 al 1222 combatté ostinatamente con esito incerto nella nostra regione; assediato a lungo dagli eserciti di Federico II, riuscì una notte ad evadere con milizie e cavalieri fedeli, e devastando terre e paesi, percorse vendicandosi tutta la Marsica. Anche i nostri paesi, che da decenni non avevano pace, furono saccheggiati e spogliati. Tommaso si chiuse e si difese in Celano.
Con rapida mossa forti eserciti furono
inviati dal conte di Acerra, da Stefano abate cassinese e da Rainaldo,
arcivescovo capuano, nella Marsica e Celano fu assediata: assedio che preludeva
a giornate più tristi. A questo punto
intervenne l'imperatore in persona. Tornato da poco dalle Puglie, Federico II per
Vallem Soranam (Balsorano) si dirige da Sora su Celano. Il figlio di
Enrico VI e di Costanza è il terzo imperatore ad attraversare Valle Roveto. Subito
dopo Federico ripartiva per la Sicilia mentre la pace si firmava dai messi
dell'imperatore e da Tommaso, al quale rimaneva solo la Contea del Molise.
Chi
pagò le spese fu Celano, la disgraziata città che venne rasa al suolo. La sola
chiesa di S. Giovanni restò in piedi fra le macerie della città. Gli abitanti
perseguitati furono dispersi in vari paesi del Regno! In seguito furono
richiamati dal giustiziere Enrico di Morta e inviati in Sicilia, ma si videro
diretti alla fine da Federico II nell'isola di Malta. Alcuni anni dopo
tornarono i celanesi in patria, ma l'imperatore volle ostaggi di ogni parte
della Marsica.
Quella che ho descritta è semplice sintesi dei fatti svoltisi,
fra il 1223 e il 1224, nella contea di cui faceva parte Valle Roveto. L'eco di tanti lutti si ripercosse per tutto
il territorio marsicano e accrebbe le ansie degli abitanti della valle, per
dove passavano corrieri imperiali, portatori di severi messaggi e di gravi
minacce. Le stagioni anche furono avverse in quegli anni.
Nel 1226 gelò il lago Fucino e per il trasporto di travi o di altra legna furono costretti gli abitanti dei paesi rivieraschi a trascinare sul lago i loro buoi. Ed ecco nuove sorprese. Il ribelle conte della Campania, profittando dell'assenza dell'imperatore, con esercito imponente ed ostile, occupate Sora, Fontana ed Arpino, entrava nella Valle Roveto ed occupava Vallem Soranam (Balsorano) con tutta la Marsica (totam Marsiam). Come un fulmine giunse l'imperatore, tornato dall'Oriente, e Sora fu bruciata il 28 ottobre del 1229.
Non sappiamo la sorte
toccata alla nostra regione, ma non sbaglieremo molto se pensiamo che altre
sofferenze si aggiunsero a quelle che senza soste si ripetevano nelle terre del
Fucino e nel bacino del Liri. Successe un periodo di relativa tranquillità. La
Contea di Albe fu conferita nel 1230 a Giovanni di Poli, figlio di Riccardo dei
conti di Segni. Riccardo era stato conte di Sora dal 1208 al 1221.
Prima del 1230 era passato ovunque il terrore. Non solo Celano, ma anche altri paesi della Marsica furono distrutti in quegli anni. Perché? Per avere ostacolato la politica dell'Imperatore e avere sostenuto quella del Papa. Federico II impose, esiliando o distruggendo, la pace della paura nell'Italia meridionale. Pur avendo acquistato tanti meriti in altri campi, specialmente nel proteggere alla sua corte in Sicilia letterati ed artisti, non seppe sempre accattivarsi le simpatie dei sudditi e dei popoli da lui governati. Il Regno rimase ancora diviso in guelfi e ghibellini.
Il fuoco covava sotto la cenere e fra pochi anni sarebbe divampato più atroce di prima. Intanto anche in Abruzzo fu istituito un giustizierato, Iustitiaratus Aprutii (1233-1234), con sede in Sulmona. Dal primo maggio al primo novembre di ogni anno convenivano in quella città, alla presenza del legato imperiale, giustiziere e maestri di camera, prelati, conti, baroni, cittadini e chiunque voleva, per discutere le questioni e i problemi che riguardavano il Regno.
Nel mese di giugno del 1240, come apprendiamo sempre
dalla cronaca di Riccardo da S. Germano, l'imperatore, diretto ad Ancona,
ancora una volta passò per Soram et Marsiam. Infine, come leggiamo nella stessa
fonte, nel giugno del 1242, Federico II, reduce dalla Puglia, venne a Sora e da
qui raggiunse la Marsica, sostando tutto il mese nei pressi di Avezzano.
Non è
difficile immaginare quale situazione si creò nella Marsica e nei piccoli
paesi di Valle Roveto in tanto trambusto, in un clima così arroventato, in
quell'altalena incessante di vincitori e di vinti, durata per anni. Le
inimicizie si trasmisero e a lungo restarono negli animi odi e rancori. Non è
da meravigliarsi se dopo la morte di Federico II (1250) ancora esistevano nella
valle, come vedremo, partigiani della corona sveva.
Quanto tempo rimase conte di Albe Giovanni di Poli? Non lo sappiamo. Sono questi gli anni più difficili dell'aspra e lunghissima lotta tra Papato ed Impero. A causa delle scarse fonti del tempo è oggi impossibile seguire le principali vicende della contea, di cui faceva parte la Valle Roveto, territorio se non economicamente importante, certamente .di grande valore strategico per la sua posizione, durante le guerre combattute in questo estremo lembo d'Abruzzo, per tutto il secolo XIII, come in breve abbiamo narrato nelle pagine precedenti.
Con la fine della cronaca di Riccardo da S. Germano (1242), si fanno sempre più povere le fonti della nostra storia. Da un diploma di Corrado IV, successore di Federico II, apprendiamo che conte d'Albe fu nominato Federico d'Antiochia, uno dei figli illegittimi di Federico II. L'anno dell'investitura ci è ignoto. Nessun documento ci dice la data: forse attorno al 1252. Intanto, nel 1254, dopo l'incontro di Anagni e il fallimento delle trattative col pontefice Innocenzo IV, Federico d'Antiochia e Manfredi furono scomunicati.
Il conte d'Albe ebbe senz'altro dura la vita negli ultimi mesi, passati tra pericoli e minacce, probabilmente quasi sempre lontano dai suoi possedimenti di Albe e di Celano. Quando egli moriva a Foggia nel 1256, lasciava due figli: Corrado e Filippa. Eccoci di fronte al famoso Corrado d'Antiochia, quello che ha legato il suo nome al paese di Anticoli Corrado. Appunto a questo Corrado conferì Manfredi, proclamatosi a Palermo nel 1258 re di Sicilia, come erede legittimo di casa sveva, nuove terre e possedimenti, riconfermandogli le contee d'Albe e di Celano. Doveva essere giovanissimo Corrado; infatti, il padre Federico era nato attorno al 1220, secondo le fonti più attendibili.
Ha
inizio per Corrado una vita avventurosa e irrequieta, che in lui rilevò, come
in tutti i personaggi della sua famiglia, desiderio di dominio, disprezzo del
pericolo, audacia nella incertezza e nella fuga, un tenace e irriducibile
amore della lotta. Mentre la stella sveva accennava a risorgere, Corrado
d'Antiochia, ormai in rotta col papa, occupò la Marca d'Ancona, il Ducato di
Spoleto e devastò i territori pontifici, divenendo persecutore dei partigiani
della Chiesa. Poi, attratto in un tranello, fu fatto prigioniero dagli
abitanti di Montecchio e fu rinchiuso in quel castello nel 1262.
Da Montecchio
riuscì a fuggire con l'aiuto degli amici, e più tardi, al tempo della battaglia
di Benevento, dopo la proclamazione di Carlo d’Angiò a re di Sicilia, Corrado
di Antiochia, mai domo, corse alla difesa delle sue terre d'Abruzzo. Con
l'angioino vincitore venivano a patti o si arrendevano vilmente a discrezione
tutti i parenti e gli amici di Manfredi, caduto da valoroso a Benevento; solo
Corrado d'Antiochia si rifiutò, con Galvano ed altri pochi, di gettare le armi.
Forse fuggiasco percorse paesi e castelli dell'Italia meridionale, forse rimase a lungo nascosto in casa degli amici dei suoi feudi, sempre pronto alla riscossa o a far valere i suoi diritti. Seguitò egli a contare molti seguaci nelle nostre terre; anzi, financo nel 1286, come dirò fra poco, non ancora erano stati assolti dalla scomunica papale alcuni notabili di Civita d'Antino, colpevoli di avere aiutato un tempo il bellicoso discendente di Federico II. Nel 1266 troviamo conte d'Albe un certo Ruggiero. Lo avrà nominato senz'altro Carlo d'Angiò, ormai riconosciuto da Clemente IV senatore di Roma e re di Sicilia.
Fra tanti avversi avvenimenti non
tramontò la speranza dei ghibellini italiani e per conseguenza di Corrado
d'Antiochia. Nel 1267 entrava in Italia Corradino di Svevia, l'ultimo rampollo
svevo legittimo, figlio di Corrado IV, che aveva appena due anni alla morte
del padre. Corrado d'Antiochia fu tra i primi a raggiungere in Verona
Corradino, a prestargli obbedienza, ad offrirgli il suo aiuto e le sue milizie.
Corradino, da parte sua, in cambio della devozione e dell'omaggio di fedeltà,
concesse a Corrado d'Antiochia, oltre le contee di Albe e di Celano, anche
altre terre dandogli il titolo di principe d'Abruzzo. Era la fine del 1267 o al
massimo il principio del 1268.
Corrado d'Antiochia accompagnò da Verona a Roma
Corradino; questi fu accolto trionfalmente al passaggio dai ghibellini italiani,
che vedevano nel giovanetto svevo la risurrezione dell'Impero. Quando Corradino
con l'esercito penetrò per la via Valeria in Abruzzo e si affacciò nella valle
del Salto, sicuramente ritrovò anche Corrado d'Antiochia, nelle terre che
riteneva sue, amici e seguaci, pronti a combattere per la causa della corona
sveva.
Corradino, come giustamente pensano alcuni autori, preferì la via Valeria alla via che portava direttamente per Ceprano nel Regno di Napoli, perché convinto di trovare nella Contea d'Albe e nei paesi d'Abruzzo, già feudi di Corrado d'Antiochia, accoglienze trionfali e nuovi guerrieri, decisi a difendere i suoi diritti. Corrado combatté valorosamente tra Scurcola e Tagliacozzo il 23 agosto 1268 contro le milizie francesi di Carlo d'Angiò che furono al primo scontro vinte e messe in fuga.
Già gli abitanti di Albe con grida di gioia esultavano per la vittoria. quando improvvisamente i vincitori, che inseguivano i fuggiaschi e si erano dispersi nel campo al saccheggio, furono sorpresi e sconfitti dalle riserve di Carlo d'Angiò. Corradino riuscì a fuggire, ma Corrado d'Antiochia fu fatto prigioniero nel campo di battaglia.
In
seguito, per intercessione del cardinale GiovaI1ni Gaetano Orsini, Corrado
potette evitare la morte, ma solo ad una condizione: che il suddetto
cardinale, che fu poi Nicolò III, si assumesse la responsabilità di tenerlo in
custodia.
Furono quelle che precedettero e seguirono la battaglia di Tagliacozzo giornate di trepidazioni e di paure: la notizia del sanguinoso scontro si propagò in un baleno per tutto il Regno e i soldati sbandati e provati nella tragica giornata si aggirarono per i castelli d'Abruzzo, senza dubbio anche per i coni e i paesi di Valle Roveto, vicinissima al luogo del combattimento, in cerca di asilo e di un rifugio, aumentando lo spavento e le preoccupazioni di una gente, divisa in guelfi e ghibellini. La vendetta del vincitore non si fece attendere: le pietre della città di Albe furono, per ordine del primo angioino, trasportate nella pianura e servirono per la costruzione del tempio della Vittoria.
La
città con i suoi vetusti monumenti fu diroccata perché pagasse il fio della
sua fedeltà agli svevi; e non si è lontani dal vero nell'affermare che abbia
conosciuto la rappresaglia angioina anche il partito ghibellino dei castelli di
Valle Roveto. Purtroppo è la legge atroce della storia: oggi a me, domani a te
Massimamente, quando si tratta di nemici politici, il vincitore quasi sempre
crede di avere diritto ad infierire sui vinti.
Quale la
sorte della Valle Roveto durante questo primo periodo angioino? Moltissimi atti
notarili, ancora esistenti nella Certosa di Trisulti (Frosinone), sono
espliciti: la Contea di Albe, a cui apparteneva ancora la Valle Roveto,
seguitò la sua storia sotto conti graditi e obbedienti a Carlo d'Angiò e ai
suoi successori. Nel 1278, Carlo d'Angiò, nel viaggio di ritorno da Roma a
Melfi, si fermò per una giornata, il 20 giugno, a Civitella Roveto.
A Civitella Roveto, che fu scelta come tappa di riposo al lungo viaggio di Carlo, dovette informarsi il re angioino della fedeltà dei suoi sudditi e forse delle necessità della valle, dopo tante lotte e tante sofferenze. Ma anche per Carlo d'Angiò la vita si faceva difficile. Il mal governo dei suoi portava nel 1282 alla rivolta dei Vespri Siciliani.
Ricompare allora Corrado d'Antiochia.
Invitato da Pietro d'Aragona ad invadere il Regno, non si fece ripetere due
volte l'invito: immediatamente penetrò nell'Abruzzo, spinto dalla nostalgia di
ricuperare le terre perdute; fra esse senza dubbio la Contea d'Albe. A nulla
valse la scomunica del Papa Martino IV, sollecito a ricordare a Corrado prima
le benemerenze della Santa Sede che gli aveva allontanato dal capo la mannaia
angioina, poi l'obbligo giurato di restare fedele alla Chiesa.
Corrado d'Antiochia e gli altri fuorusciti, noncuranti delle promesse e della scomunica, strinsero ben presto rapporti ed intese con i custodi di molti castelli d'Abruzzo, animati dalla ferma intenzione di impadronirsene. Carlo d'Angiò, avvertito a tempo del pericolo, mise in guardia Ludovico de' Monti, Vice Maestro Giustiziere del Regno, il quale a sua volta incaricò Simone di Bois, provveditore dei castelli d'Abruzzo, di spiare le mosse di Corrado e allontanare i custodi sospetti.
Anche se quelle trame, scoperte
tempestivamente, fallirono, riconfermarono un Corrado battagliero e irriducibile,
tenutosi sempre ai confini del Regno, risoluto a profittare di qualunque occasione
favorevole per porre in opera il piano da anni sognato. Il tentativo più
clamoroso di riportare la rivolta in Abruzzo fu messo in atto da Corrado
durante l'assenza di Carlo d'Angiò, recatosi in Francia, dopo la rivolta di
Palermo, in cerca d'aiuti: In quella incerta situazione il principe di Salerno,
che avvertì la gravità del pericolo, non attese il ritorno di Carlo, ma con urgente
messaggio esortò le università, i conti, i baroni, i baglivi e i giudici del
giustizierato d'Abruzzo a stringersi attorno ad Aurelio de Courban e
impegnarsi a catturare a tutti i costi Corrado e i suoi amici.
Nella lotta che si sosteneva contro gli angioini, non furono mantenute le promesse fatte dai ghibellini ai fuorusciti di prestare aiuti per invadere le estreme terre del Regno. E neppure fu trovato pieno accordo tra Pietro d'Aragona, i Doria, gli Spinola ed altri signori genovesi e pisani; anche ai nobili di Roma da una parte e a Corrado d'Antiochia dall'altra mancò l'intesa a seguire una condotta comune.
A Roma, a Genova, a Pisa tutto restò lettera morta; Guido da
Montefeltro pensò ai casi suoi, e così soltanto Corrado d'Antiochia diede
molestia agli angioini. Le sue milizie con audaci colpi di mano assalirono
ripetutamente varie terre d'Abruzzo, e, anche se non riuscirono a
riconquistare al loro signore, Corrado d'Antiochia, i suoi feudi, tennero
sempre desta in quelle popolazioni la memoria degli svevi.
Certamente rimase per un lungo periodo nell'aria, come una spada di Damocle, sospesa sui castelli e le terre della Contea di Albe, il pericolo di un brusco ritorno di Corrado d'Antiochia. Intanto nel giugno del 1283 il principe vicario, ad evitare le enormi spese occorrenti alla difesa di tanti paesi d'Abruzzo, ordinò di spianarne molti.
Quando però il principe di Salerno fu fatto prigioniero da Ruggiero di Lauria, Corrado non indugiò più e si ebbe l'ultimo tentativo di tornare in possesso di Albe. Corrado, battuto in un primo tempo dal rettore pontificio della Campagna romana e da Stefano Colonna, signore di Genazzano, riuscì in un secondo tempo, grazie anche al denaro inviatogli dalla regina Costanza, a riprendere la lotta e a percorrere minaccioso le terre d'Abruzzo fino al Molise.
Al ritorno di Carlo dalla Francia, si riaccesero contro Corrado le ostilità del re angioino, deciso a farla finita per sempre. Ma il desiderio del re fu frustrato dalla morte che lo raggiunse a Foggia il 7 gennaio 1285. Fu un momento di confusione: il re morto il figlio ancora prigioniero, il Regno affatto tranquillo, molti ancora i nemici non domi.
Corrado, reso più ardito
dalle circostanze favorevoli, rioccupò terre e castelli d'Abruzzo. Non lo
sappiamo con sicurezza, ma da un documento già accennato e che ricorderò ancora
una volta in questo capitolo, possiamo quasi credere che Corrado tornasse in
possesso anche della Contea d'Albe. Il suo ritorno vittorioso ebbe breve
durata.
Fu il canto del cigno. Ben presto le milizie della Chiesa, al comando
del francese Giovanni d'Appia, ebbero la meglio sui ribelli e forse Corrado abbandonò
per sempre l'Abruzzo e le nostre terre. Anche la Valle Roveto dovette vivere
attraverso i partigiani e i nemici di Corrado d'Antiochia il lunghissimo dramma
di un uomo, tetragono alle avversità della sorte e costretto alla resa solo
dall'ineluttabile destino.
In un registro vaticano (e penso che la notizia, oggi da me Pubblicata in questo lavoro storico, sia del tutto inedita) è scritto che i nobili Berardo, Bartolomeo ed altri signori di Civita d'Antino, sotto il pontificato di Onorio IV essendo incorsi nella scomunica per aver aiutato Corrado d'Antiochia, in rotta con la Chiesa e scomunicato, furono assolti, in seguito a supplica diretta al Papa, dai Vescovo di S. Sabina, con dispensa dal recarsi da quest'ultimo.
Il documento vale ad informarci con
sicurezza che a quei periodi di guerre e di scompiglio partecipò anche la Valle
Roveto e come le passioni di parte turbarono le coscienze degli uomini dei
nostri paesi. Dal documento, che è del 1286, risulta anche che Corrado era già
tornato all'ovile e all'obbedienza della Chiesa. Apprendiamo inoltre che i
signori di Civita d'Antino in mano del capitano generale d'Abruzzo avevano
prestato giuramento di fedeltà agli eredi della «chiara memoria di Carlo re di
Sicilia».
Si perde così quasi del tutto il nome di Corrado d'Antiochia, dalla
vita avventurosa e travagliata. Ne ritroviamo il nome in qualche raro
documento: una volta col titolo di conte di Anticoli. A questo paese, infatti,
ha legato, come ho detto sopra, il suo nome, fino ai nostri giorni. Certamente
il secolo XIII fu un secolo movimentato per Valle Roveto, che assistette a
mutamenti continui e visse ore tragiche e paurose. La nostra terra, che
partecipò a quella storia, cambiò continuamente padrone.
Sotto Carlo d'Angiò,
davanti al Giustiziere d'Abruzzo, che risiedeva a Sulmona, erano passati il 28
ottobre del 1279 anche i feudatari di Valle Roveto. Alla presenza del
Giustiziere si registrarono i nomi delle persone e delle terre rappresentate,
oltre alle tasse che ogni anno si pagavano e al servizio che si era tenuti a
prestare al re angioino. Molti feudatari assenti mandarono i loro procuratori
con cavalli e palafreni, con giumenti ed armi.
Furono rappresentate in quella
occasione le terre di Civita d'Antina, di Canestro, di
Civitella, di Castelnuovo, di Rendinaria, di Morino, di Valle
Sorana e di Morreo. Manca Rocca de Vivo: forse ancora seguitava a far
parte temporaneamente della Contea di Sora? E la Contea d'Albe? Nel 1293
troviamo contessa d'Albe Filippa di Celano, discendente da Tommaso, già conte
di Celano e d'Albe.
Filippa discendeva direttamente da Ruggiero e suo primo
marito era stato Pietro di Beaumont. Nel 1293 le terre di Oddo di Toucy, secondo
marito di Filippa e perciò conte d'Albe, erano le seguenti: Alba cum Cappella,
Avezanum, Transaque, Lucum, Turanum, Vallis Sorana, Civitas Antine,
Castellum Novum, Murreum, Rendenaria, Lameta, Civitella, Pesculum Canale, Capistrellum,
Caliponium, Curcumello, Altum Sanctae Marie, Castellum vetus, Canzanum,
Podium, Sculcula, Fuce, Agellum. Riporto le località come sono scritte. Mancano
nell' elenco Canistro e Morino; sono del parere che si tratti di semplice
omissione. Per Rocca de Vivo vale l'osservazione fatta pocanzi.
Nel 1305 e nel
1306 contessa d'Albe era ancora Filippa di Celano, ma della Contea di Albe si
parlerà nel capitolo seguente. Il secolo XIII si era chiuso così dopo una serie
ininterrotta di avvenimenti e di guerre, che turbarono i giorni della
tranquilla popolazione di Valle Roveto, desiderosa solo di pace e consacrata
allora, come sempre, al lavoro, nella ricerca affannosa dei mezzi del suo
sostentamento.
Fu senz'altro difficile la vita in quelle età disgraziate! Alle difficoltà create dalle prepotenze dei signori e dalle ambizioni dei re e dei principi si aggiungevano ad ogni generazione le epidemie che mietevano vittime nei nostri paesi abbandonati, ove l'igiene era sconosciuta e dove brillavano la noncuranza dei poteri centrali e l'assenza di qualsiasi previdenza umana e sociale.
E debbo purtroppo ricordare che ai piedi di Pescocanale, proprio
all'inizio di Valle Roveto, esisteva in quel secolo un lebbrosario. Esso
raccoglieva i poveri lebbrosi, che ancora si aggiravano forse nella nostra
terra. Il Papa Nicolò IV dirigeva il 1° ottobre 1289 da Rieti al Maestro e ai
fratelli dell'Ospedale dei lebbrosi di S. Silvestro, eretto ai piedi di
Pescocanale, in diocesi di Sora, una sua lettera che concedeva un anno e
quaranta giorni di indulgenza a quanti visitavano quella chiesa, annessa al
lebbrosario, in determinati giorni dell'anno.
Era la voce cristiana che richiamava gli uomini in tanto smarrimento di coscienze alla carità evangelica e ricordava loro un po’ di umanità in un mondo di odio e di guerra. E a conclusione di un dramma, durato un secolo, un'altra pagina dolorosa! Fu il nostro popolo obbligato a ricostruire quanto l'ira del vincitore si era accanita a distruggere. Roccavivi dovette riparare il suo paese semidistrutto assieme ai cittadini della contrada di S. Paolo, del suo territorio, e agli abitanti del vicino paese di S. Giovanni Valleroveto. Infine in un secolo di decadenza di ogni valore morale non furono meno frequenti le appropriazioni indebite da parte di privati e di potenti del luogo.
In una lettera del 16
febbraio 1296, Bonifacio VIII (1294-1303), ad evitare nuove dilapidazioni e
nuovi abusi già commessi ai danni della Grotta di S. Angelo in Balsorano,
univa alla Mensa del vescovo di Sora, Nicola, i beni di quell'antico convento,
tenuto, pare, un tempo dai benedettini.
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